recensione su Il Nastro Azzurro
del Gen. Antonio Daniele
Tratto da Il Nastro Azzurro, periodico nazionale dell’Istituto del Nastro Azzurro fra combattenti decorati al valore militare, gennaio-febbraio 2009
Il memoriale di guerra del sottotenente Bruno Cecchini, che ha combattuto in Russia nelle file dell’Armir ed è poi stato fatto prigioniero dai russi, è struggente e brutale come un pugno nello stomaco.
La prima parte narra le vicende eroiche del 3° Reggimento Bersaglieri dal punto di vista privilegiato di chi è diretto protagonista degli eventi. La storia della tragica spedizione italiana in Unione Sovietica è nota: a nulla sono valsi gli episodi di disperato eroismo contro il numero e la potenza delle armi sovietiche e il gelo del terribile inverno russo. Dei circa 70.000 italiani che vennero catturati dai russi e tenuti prigionieri ben oltre il termine del conflitto, ne tornarono a casa non più di 10.000.
Le vicende narrate in questo libro descrivono minuziosamente cosa succedeva nel lager russo di Suzdal, riservato agli ufficiali: le condizioni di vita dei prigionieri erano al di là di ogni immaginabile sopportazione; il tasso di mortalità durante la detenzione è, in assoluto, il più alto del mondo, anche a paragone dei campi di prigionia tedeschi e giapponesi, ben più noti per i maltrattamenti ai detenuti. I russi ritenevano i prigionieri esseri indegni di qualsiasi considerazione e li trattavano senza alcuna umanità (i particolari sono molto ben descritti, sia nella lunga premessa del curatore Alessandro Ferioli, sia in modo più umanamente diretto da Cecchini). A peggiorare la situazione contribuiva anche la generale disorganizzazione della logistica sovietica. Ciò che invece appare organizzato alla perfezione è il sistema di propaganda comunista che tenta, per tutta la durata della prigionia, di convertire i detenuti alle presunte meraviglie del sistema sovietico e di arruolarli come future spie. Il metodo è complesso ed articolato: si sviluppa tramite interrogatori notturni che vertevano sulla vita privata e sulle abitudini dei prigionieri; si appoggia all’aiuto fornito da delatori comunisti italiani che, fuggiti in U.R.S.S. perché perseguitati dal regime fascista, cercano di rifarsi sui soldati connazionali prigionieri; comprende l’abbondante fornitura di libri, riviste e testi politici di ogni genere (il periodico propagandistico “L’alba”, viene stampato in un numero di copie tali da esserne disponibile una ogni dieci prigionieri, obbligandoli alla lettura “comune”, al fine di stimolare il dibattito e la discussione su temi politici). Insomma, viene attuato un tentativo di “lavaggio del cervello” di massa che, solo grazie alla forza di volontà di quegli uomini, ha poco successo.
Dopo l’8 settembre, i prigionieri non vedono alcuna mutazione nel trattamento loro riservato, se non nella propaganda che, da antifascista, diventa anti liberale e anti occidentale.
Il gruppo di ufficiali con i quali l’autore è detenuto viene liberato il 25 aprile del 1946, un anno dopo la fine della guerra, ma deve attendere ancora circa due mesi a Vienna poiché (loro non lo sapevano) in Italia si deve svolgere il referendum popolare per la scelta tra monarchia e repubblica e il rientro in Patria di quella cinquantina di sopravvissuti viene ritenuto imbarazzante da molti politici, timorosi nei confronti delle intemperanze dei militanti del PCI alla vigilia dell’importante consultazione, e per questo viene ritardato fino al 19 luglio. Il gruppo, finalmente tornato a calpestare il suolo italiano, si scioglie a Milano non senza provare l’umiliante delusione di vedersi considerati quasi degli intrusi che, con l’evidenza della loro terribile sofferenza, disturbano altri più furbi che si sono già adeguati alla nuova situazione. Il rocambolesco rientro a casa del c.b. (come l’autore indica se stesso per tutta la narrazione svolta in terza persona) è il pezzo più semplice, forse banale, ma il più struggente: finalmente nella natia Porretta, il nostro rifiuta un piatto di pasta offertogli dalla zia, per il quale doveva attendere il tempo di cottura, e accetta un panino che gli permette di correre dalla sua famiglia qualche minuto prima. Chi spera di non trovare giudizi politici in questo libro è meglio che non lo legga. Le brutture del comunismo, quello vero, quello sovietico, sono descritte in tutta la loro brutalità al punto che, il fascismo, che pure è stato una dittatura liberticida, ne esce involontariamente riabilitato al confronto e la neonata democrazia, che da subito strizza l’occhio a sinistra, appare partita proprio col piede sbagliato.
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anno 2010 - pagine 196
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