12 - L’associazione segreta e il giuramento dei disperati
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Versione adatta alla stampa E la vita (ma che vita, ’sta vita!) riprese a trascorrere; lenta come al solito nel famigerato lager staliniano di Suzdal’, veloce nel mondo.
Il c.b., durante il limitato peregrinare rigenerativo giornaliero del Campo, incontra quotidianamente, fra le tante, la solita faccia amica di un caro amico più caro degli altri cari: Pontieri, il collega bersagliere del Terzo.
All’imbrunire, nell’ora in cui di solito ai naviganti s’intenerisce il cuore e ai celoviek s’indurisce, i due duri del Campo 160 passeggiano nel vialetto e sottovoce parlottano fra di loro. Ci sono alberi dintorno e rari passanti in giro; comunque meglio essere prudenti considerato che in questo luogo d’inferno orecchie indiscrete, occhi acuti si possono trovare tra le fronde, negli oggetti, in ogni dove, anche al cesso. Per fortuna che il freddo ormai pungente e quel pezzetto di cielo già scuro, quasi nero, che preannuncia tempesta, tolgono ai più il desiderio di fare quattro passi distensivi. Il sommesso chiacchierare s’interrompe sempre alla vista di persone, animali e cose e riprende una volta aggirato l’ostacolo. Chi vive nel lager di Suzdal’ non si meraviglia affatto e non dice niente perché oramai ha fatto l’abitudine a questo andazzo, a questo strano modo di vivere comune in tutti i possedimenti dell’impero rosso.
Dice l’amico:
“La vita nel lager si fa sempre più dura e ossessionante; la speranza ci lascia, la gente ha paura, la fede vacilla e gli ideali, i valori, la dignità, la legge sviliti e dimenticati. La resistenza a certi soprusi, a imposizioni folli, a lusinghe meschine sempre più debole e rara. Non parliamo poi del morale, che è a pezzi; della fame, che è tanta; della paura, che è grande”.
Il timore degli interminabili colloqui, delle partenze improvvise per il Campo 27 di Mosca, per l’infinito siberiano o per chissà dove abbatte la resistenza dei più; le voci infine su certi giuramenti, nuovi e irrevocabili, in auge nel Campo 27, la Scuola di mistica comunista (sezione prima per quelli che aderiscono volontariamente; seconda per i dubbiosi; terza per i rinunciatari da obbligare) completano il quadro crepuscolare o fosco che incornicia il nostro vivere.
“Che si fa? Cosa possiamo fare?”, chiede tanto per dir qualcosa il c.b. triste e rassegnato.
“Io ho già preso la mia decisione; decisione irremovibile, estremamente pericolosa, terribile anche, ma che mi sprona a resistere e mi dà pace al cuore e alla mente. Ascoltami bene, amico mio, e se riterrai di condividerla, dopo averci pensato e ripensato più volte, me lo farai sapere; altrimenti dimentica tutto finché saremo prigionieri. Si tratta di restare sempre e comunque, anche di fronte alla morte, soltanto fedeli alla nostra Patria e al giuramento fatto al Re, nient’altro; anche a costo di non uscire mai più da questo maledetto inferno. Per me solo il legittimo governo italiano può scioglierci da quel giuramento fatto al termine della Scuola Allievi Ufficiali, nessun altro. Mai. Perciò niente nuovi giuramenti in terre straniere, né altre scuole, tanto meno appelli per questo o per quello; niente altro di niente. Solo prigionieri e basta fino al nostro rientro in Patria e con la nostra dignità immacolata, col nostro onore di soldati, fedeli fino alla morte alla nostra sacra promessa e al 3° Bersaglieri”.
Una pausa, e poi conclude:
“Davanti a Dio nostro e ad un caro amico, alcuni giorni fa, ho rinnovato il giuramento di tener fede, a qualunque costo e fino al nostro rientro o alla morte, a quella promessa solenne. Tu cosa pensi di fare? Prima di rispondermi rifletti bene, pensaci due volte e se te la sentirai di condividere questo pesante impegno, fammelo sapere. Ci rivedremo, per una risposta, quando lo vorrai, nello stesso luogo, all’imbrunire, tu ed io, soli. Rifletti bene però; il peso che una risposta positiva comporta è grande, il rischio tremendo, il ritorno in Italia più incerto che mai”.
La notte il c.b. non dormì affatto, o quasi. Pensieri e pensieri si accavallavano senza tregua e alla rinfusa nella sua mente ormai stanca di pensare e di riflettere. I volti dei compagni prigionieri sfilavano nitidi e chiari davanti ai suoi occhi inutilmente sgranati nel buio profondo delle tenebre ma che però vedevano, come sotto il sole più radioso, ciò che richiamava alla mente. Ogni volto che gli appariva mostrava un diverso comportamento, un dissimile atteggiamento, un carattere debole o forte, una irripetibile personalità; aspetti, questi, che ogni uomo nascondeva dentro, ma che in tante tristi, misere, tremende vicissitudini della vita straripavano fuori e mostravano ciò che in realtà ciascuno di noi è quando si ritrova nudo. E in quelle fulgide o spregevoli o orride visioni si stagliavano netti i visi duri di quei cari amici guidati da Stagno, Pennisi60, Ioli61, Reginato62 e altri partiti inspiegabilmente, e senza ritorno, per luoghi sconosciuti o lontani a causa del loro opporsi ad ogni compromesso che avrebbe infangato la loro dignità e il loro onore; le pallide e livide facce tremanti di coloro che volontariamente, o per paura, o per convenienza avevano venduto anche l’anima a Stalin ed erano corsi alla Scuola di Mosca a giurare abiurando; i biechi e i vili figuri che alla faccia di tutto e di tutti non si facevano scrupolo di denunciare, in silenzio e ben mimetizzati, alla polizia politica i propri fratelli; le sembianze severe e pulite di coloro che si opponevano, e a che prezzo, alle rozze, barbare imposizioni o alle violenze di ogni genere. In questo caleidoscopico turbinio di ombre e di luci, il c.b. metteva a confronto il contenuto del giuramento fatto a Pola con quello da farsi a Mosca al termine dei nuovi studi; ricordava il potere occulto e terroristico e onnipresente della polizia politica, l’Nkvd; le fallaci menzogne del paradiso sovietico; l’assurda, tragica, utopistica ideologia del socialismo reale e l’orrida realtà del comunismo vitale; i gulag e la Lubianka, la Siberia e i manicomi, le stragi e le purghe, i lavori forzati e i genocidi, le mille e mille fosse comuni e le guerre di liberazione, i tribunali del popolo e i plotoni d’esecuzione, il migliore e i peggiori. Esaminava la legge vigente con la ex lege, il dovere e il potere e infine, inneggiando all’inferno terreno camuffato da paradiso celeste, nonché al mondo cane e rosseggiante, prese la sua sicura, ponderata decisione e si assopì beato.
La sera dopo il c.b. incontrò nuovamente l’amico bersagliere, quel caro fratello col quale aveva condiviso l’entusiasmo della nomina a ufficiale; il brillante voto riportato agli esami del corso che gli avevano permesso di essere assegnato al 3° Reggimento; la partenza senza tanti rammarichi o pensieri astrusi per il fronte russo perché così ordinava la Patria; i lunghi, interminabili momenti degli attacchi in trincea o la ferma volontà, senza paure di sorta, di raggiungere ad ogni costo l’obiettivo durante gli assalti alla baionetta; le veloci e coraggiose scorribande a suon di fucilate sulla terra di nessuno, a fianco della riva destra del Don durante le ultime, tristi fasi della guerra; i giorni tragici, tremendi, entusiasmanti anche, degli assalti alla piazzaforte di Meskov; i bestiali e crudeli momenti della cattura e delle infami marce del davai nella steppa infinita e ghiacciata, le settimane orride del treno del pianto, l’inferno dantesco durante l’epidemia di tifo petecchiale e i giorni bui e disumani della lunga prigionia.
Camminando lentamente il c.b. si fermò nel solito angolo buio e discreto del cortile, guardò in faccia l’amico e gli disse:
“Solo prigioniero e basta, fino al nostro rientro in Patria o alla morte; lo giuro come ufficiale del Terzo e davanti a te e al nostro Iddio, lo giuro”.
Ancora uno sguardo negli occhi, un saluto militare, una lunga, forte stretta di mano e via con una incrollabile fede nel cuore, con un coraggio più grande, con la mente e l’anima in pace.
“Se vuoi, puoi trasmettere questo messaggio ad un altro tuo amico, ma ad uno soltanto, non due. E stai ben attento prima di confidarti con altri; devi avvicinare una sola persona nella quale hai completa, cieca fiducia come io ne ho avuta per te, e tu per me. Solo ad uno, fa parte del patto. Diversi altri come noi hanno in questi giorni rinnovato questo giuramento, ma nessuno, dico nessuno, può conoscere più di due persone ed è facile intuire il perché. Se l’Nkvd scoprisse o subodorasse qualcosa, può darsi che qualche anello della catena si spezzi, ma non si spezzerà l’intera catena; ricordalo, amico bersagliere”.
Due sere dopo altri due sguardi s’incontrarono all’imbrunire nel solito posto; due saluti militari, una stretta di mano, un giuramento solenne e via con più forza nel cuore. Un duro ufficiale della Divisione Vicenza, un napoletano tutto di un pezzo, un fraterno amico del c.b., si unì al gruppo occulto dei folli disperati del Campo che mai avrebbero detto un solo sì ai russi, ai mezzi russi, ai campioni novelli e nostrani, quei figli di nani63.
Il terzo lungo e interminabile inverno già batte alle porte; si avverte nell’aria, ti entra nelle ossa e nell’anima, nel cuore e nel corpo; nessuno può sfuggire al suo abbraccio gelido e triste. E con il dio inverno tornarono il freddo, il marosc, la tormenta e la neve, la tristezze e la noia e l’angoscia. Caso strano però, anche una piacevole sorpresa. Sono arrivati nel lager tre generali dell’Armir, catturati nel dicembre 1942 o a gennaio del 43. Provengono da altri campi, forse lager speciali, e sono: i generali Battisti64 e Ricagno65, comandanti di due divisioni alpine; Pascolini, comandante della Vicenza66. Molti prigionieri, pur felici di vedere altri connazionali, sussurrano, come è ora di moda, variegate impressioni, giudizi benevoli o severi, commenti e rilievi a non finire sui nuovi arrivati. Il c.b. e pochi altri, guardandoli in faccia, esclamano ad alta voce:
“Sono uomini quelli, sono uomini veri e non anellidi, come se ne vedono tanti a Suzdal’!”
La biblioteca del Campo si è arricchita di nuove opere, giornali, libercoli tutti rientranti nel filone della letteratura marxista-leninista e social-popolare. L’Alba, scritta dai soliti fuoriusciti e dai nuovi convertiti, c’informa ogni giorno e di notte, sempre, su ciò che è logico e opportuno far sapere e conoscere a dei prigionieri in mano ai russi.
Il c.b., che è sì un testone ma ignorante no, apprende in giro che tra i libri a disposizione dei celoviek si trova anche un best seller di un noto scrittore proletario italiano, il signor Germanetto appunto, che ha per titolo Memorie di un barbiere67. Poiché qualcuno ha fatto capire al reazionario bersagliere fascista, e giustamente, che è cosa opportuna e lodevole ampliare e rinnovare la trita e vecchia cultura propinata da una scuola di élite e borghese, tradizionale ed imperialista pure, con la nuova cultura social-proletaria, progressista e di massa, il c.b. accetta il consiglio del compagno riverniciato bolognese e decide di chiedere in lettura proprio le memorie di quel tal barbiere, o figaro che dir si voglia. In paesi stranieri la solidarietà di razza e l’orgoglio nazionale sono molle che danno un grosso impulso all’agire e al fare, quindi meglio un barbiere connazionale che un professore straniero. Il buon proposito però, come spesso capita, non va in porto. Infatti il solito amico, aggiornato, competente su tutto e su tutti, col fervore che in ogni azione di convincimento dimostra ha la malaugurata idea di raccontare al neolettore anche la trama del racconto, il gergo toscaneggiante dello scritto e i molti inni “allo zio e alla donna” che l’autore delle memorie usa per descrivere i soprusi, le nefandezze, i dolori di un popolo dominato dal totalitarismo fascista. La trama sicuramente realistica fa piangere e a Suzdal’ si piange anche troppo; la narrativa chiama in causa fin dall’inizio, a proposito o a sproposito, noti e vecchi personaggi che figurano ogni anno in quei cosi borghesi che sono i calendari. Santi, angeli, arcangeli, proni non ricordo, madonne e poveri cristi sì: circa 365 personaggi (366 nell’anno bisestile), i quali in genere non hanno niente a che fare col racconto, ma ci stanno bene lo stesso, occupano un posto di rilievo tra i protagonisti senza parte. Non vi dico poi le porcate che si leggono sulle patriottiche pagine che illustrano ai posteri e al mondo le miserie e le nefandezze dell’Italia e degli Italiani durante lo storico periodo preso in esame dal compatriota scrittore. - Se devo aggiornarmi e leggere queste divine commedie posso farne anche a meno e restare ignorante come mi dicono che sono -, pensa tra sé il c.b., e il buon proposito cade nell’oblio dei pii desideri insoddisfatti. Che incallito reazionario quel bersagliere di Mussolini, diranno il giorno dopo la rinuncia intellettuali vari nostrani e il campione degli Asinelli.
Il c.b., durante il limitato peregrinare rigenerativo giornaliero del Campo, incontra quotidianamente, fra le tante, la solita faccia amica di un caro amico più caro degli altri cari: Pontieri, il collega bersagliere del Terzo.
All’imbrunire, nell’ora in cui di solito ai naviganti s’intenerisce il cuore e ai celoviek s’indurisce, i due duri del Campo 160 passeggiano nel vialetto e sottovoce parlottano fra di loro. Ci sono alberi dintorno e rari passanti in giro; comunque meglio essere prudenti considerato che in questo luogo d’inferno orecchie indiscrete, occhi acuti si possono trovare tra le fronde, negli oggetti, in ogni dove, anche al cesso. Per fortuna che il freddo ormai pungente e quel pezzetto di cielo già scuro, quasi nero, che preannuncia tempesta, tolgono ai più il desiderio di fare quattro passi distensivi. Il sommesso chiacchierare s’interrompe sempre alla vista di persone, animali e cose e riprende una volta aggirato l’ostacolo. Chi vive nel lager di Suzdal’ non si meraviglia affatto e non dice niente perché oramai ha fatto l’abitudine a questo andazzo, a questo strano modo di vivere comune in tutti i possedimenti dell’impero rosso.
Dice l’amico:
“La vita nel lager si fa sempre più dura e ossessionante; la speranza ci lascia, la gente ha paura, la fede vacilla e gli ideali, i valori, la dignità, la legge sviliti e dimenticati. La resistenza a certi soprusi, a imposizioni folli, a lusinghe meschine sempre più debole e rara. Non parliamo poi del morale, che è a pezzi; della fame, che è tanta; della paura, che è grande”.
Il timore degli interminabili colloqui, delle partenze improvvise per il Campo 27 di Mosca, per l’infinito siberiano o per chissà dove abbatte la resistenza dei più; le voci infine su certi giuramenti, nuovi e irrevocabili, in auge nel Campo 27, la Scuola di mistica comunista (sezione prima per quelli che aderiscono volontariamente; seconda per i dubbiosi; terza per i rinunciatari da obbligare) completano il quadro crepuscolare o fosco che incornicia il nostro vivere.
“Che si fa? Cosa possiamo fare?”, chiede tanto per dir qualcosa il c.b. triste e rassegnato.
“Io ho già preso la mia decisione; decisione irremovibile, estremamente pericolosa, terribile anche, ma che mi sprona a resistere e mi dà pace al cuore e alla mente. Ascoltami bene, amico mio, e se riterrai di condividerla, dopo averci pensato e ripensato più volte, me lo farai sapere; altrimenti dimentica tutto finché saremo prigionieri. Si tratta di restare sempre e comunque, anche di fronte alla morte, soltanto fedeli alla nostra Patria e al giuramento fatto al Re, nient’altro; anche a costo di non uscire mai più da questo maledetto inferno. Per me solo il legittimo governo italiano può scioglierci da quel giuramento fatto al termine della Scuola Allievi Ufficiali, nessun altro. Mai. Perciò niente nuovi giuramenti in terre straniere, né altre scuole, tanto meno appelli per questo o per quello; niente altro di niente. Solo prigionieri e basta fino al nostro rientro in Patria e con la nostra dignità immacolata, col nostro onore di soldati, fedeli fino alla morte alla nostra sacra promessa e al 3° Bersaglieri”.
Una pausa, e poi conclude:
“Davanti a Dio nostro e ad un caro amico, alcuni giorni fa, ho rinnovato il giuramento di tener fede, a qualunque costo e fino al nostro rientro o alla morte, a quella promessa solenne. Tu cosa pensi di fare? Prima di rispondermi rifletti bene, pensaci due volte e se te la sentirai di condividere questo pesante impegno, fammelo sapere. Ci rivedremo, per una risposta, quando lo vorrai, nello stesso luogo, all’imbrunire, tu ed io, soli. Rifletti bene però; il peso che una risposta positiva comporta è grande, il rischio tremendo, il ritorno in Italia più incerto che mai”.
La notte il c.b. non dormì affatto, o quasi. Pensieri e pensieri si accavallavano senza tregua e alla rinfusa nella sua mente ormai stanca di pensare e di riflettere. I volti dei compagni prigionieri sfilavano nitidi e chiari davanti ai suoi occhi inutilmente sgranati nel buio profondo delle tenebre ma che però vedevano, come sotto il sole più radioso, ciò che richiamava alla mente. Ogni volto che gli appariva mostrava un diverso comportamento, un dissimile atteggiamento, un carattere debole o forte, una irripetibile personalità; aspetti, questi, che ogni uomo nascondeva dentro, ma che in tante tristi, misere, tremende vicissitudini della vita straripavano fuori e mostravano ciò che in realtà ciascuno di noi è quando si ritrova nudo. E in quelle fulgide o spregevoli o orride visioni si stagliavano netti i visi duri di quei cari amici guidati da Stagno, Pennisi60, Ioli61, Reginato62 e altri partiti inspiegabilmente, e senza ritorno, per luoghi sconosciuti o lontani a causa del loro opporsi ad ogni compromesso che avrebbe infangato la loro dignità e il loro onore; le pallide e livide facce tremanti di coloro che volontariamente, o per paura, o per convenienza avevano venduto anche l’anima a Stalin ed erano corsi alla Scuola di Mosca a giurare abiurando; i biechi e i vili figuri che alla faccia di tutto e di tutti non si facevano scrupolo di denunciare, in silenzio e ben mimetizzati, alla polizia politica i propri fratelli; le sembianze severe e pulite di coloro che si opponevano, e a che prezzo, alle rozze, barbare imposizioni o alle violenze di ogni genere. In questo caleidoscopico turbinio di ombre e di luci, il c.b. metteva a confronto il contenuto del giuramento fatto a Pola con quello da farsi a Mosca al termine dei nuovi studi; ricordava il potere occulto e terroristico e onnipresente della polizia politica, l’Nkvd; le fallaci menzogne del paradiso sovietico; l’assurda, tragica, utopistica ideologia del socialismo reale e l’orrida realtà del comunismo vitale; i gulag e la Lubianka, la Siberia e i manicomi, le stragi e le purghe, i lavori forzati e i genocidi, le mille e mille fosse comuni e le guerre di liberazione, i tribunali del popolo e i plotoni d’esecuzione, il migliore e i peggiori. Esaminava la legge vigente con la ex lege, il dovere e il potere e infine, inneggiando all’inferno terreno camuffato da paradiso celeste, nonché al mondo cane e rosseggiante, prese la sua sicura, ponderata decisione e si assopì beato.
La sera dopo il c.b. incontrò nuovamente l’amico bersagliere, quel caro fratello col quale aveva condiviso l’entusiasmo della nomina a ufficiale; il brillante voto riportato agli esami del corso che gli avevano permesso di essere assegnato al 3° Reggimento; la partenza senza tanti rammarichi o pensieri astrusi per il fronte russo perché così ordinava la Patria; i lunghi, interminabili momenti degli attacchi in trincea o la ferma volontà, senza paure di sorta, di raggiungere ad ogni costo l’obiettivo durante gli assalti alla baionetta; le veloci e coraggiose scorribande a suon di fucilate sulla terra di nessuno, a fianco della riva destra del Don durante le ultime, tristi fasi della guerra; i giorni tragici, tremendi, entusiasmanti anche, degli assalti alla piazzaforte di Meskov; i bestiali e crudeli momenti della cattura e delle infami marce del davai nella steppa infinita e ghiacciata, le settimane orride del treno del pianto, l’inferno dantesco durante l’epidemia di tifo petecchiale e i giorni bui e disumani della lunga prigionia.
Camminando lentamente il c.b. si fermò nel solito angolo buio e discreto del cortile, guardò in faccia l’amico e gli disse:
“Solo prigioniero e basta, fino al nostro rientro in Patria o alla morte; lo giuro come ufficiale del Terzo e davanti a te e al nostro Iddio, lo giuro”.
Ancora uno sguardo negli occhi, un saluto militare, una lunga, forte stretta di mano e via con una incrollabile fede nel cuore, con un coraggio più grande, con la mente e l’anima in pace.
“Se vuoi, puoi trasmettere questo messaggio ad un altro tuo amico, ma ad uno soltanto, non due. E stai ben attento prima di confidarti con altri; devi avvicinare una sola persona nella quale hai completa, cieca fiducia come io ne ho avuta per te, e tu per me. Solo ad uno, fa parte del patto. Diversi altri come noi hanno in questi giorni rinnovato questo giuramento, ma nessuno, dico nessuno, può conoscere più di due persone ed è facile intuire il perché. Se l’Nkvd scoprisse o subodorasse qualcosa, può darsi che qualche anello della catena si spezzi, ma non si spezzerà l’intera catena; ricordalo, amico bersagliere”.
Due sere dopo altri due sguardi s’incontrarono all’imbrunire nel solito posto; due saluti militari, una stretta di mano, un giuramento solenne e via con più forza nel cuore. Un duro ufficiale della Divisione Vicenza, un napoletano tutto di un pezzo, un fraterno amico del c.b., si unì al gruppo occulto dei folli disperati del Campo che mai avrebbero detto un solo sì ai russi, ai mezzi russi, ai campioni novelli e nostrani, quei figli di nani63.
Il terzo lungo e interminabile inverno già batte alle porte; si avverte nell’aria, ti entra nelle ossa e nell’anima, nel cuore e nel corpo; nessuno può sfuggire al suo abbraccio gelido e triste. E con il dio inverno tornarono il freddo, il marosc, la tormenta e la neve, la tristezze e la noia e l’angoscia. Caso strano però, anche una piacevole sorpresa. Sono arrivati nel lager tre generali dell’Armir, catturati nel dicembre 1942 o a gennaio del 43. Provengono da altri campi, forse lager speciali, e sono: i generali Battisti64 e Ricagno65, comandanti di due divisioni alpine; Pascolini, comandante della Vicenza66. Molti prigionieri, pur felici di vedere altri connazionali, sussurrano, come è ora di moda, variegate impressioni, giudizi benevoli o severi, commenti e rilievi a non finire sui nuovi arrivati. Il c.b. e pochi altri, guardandoli in faccia, esclamano ad alta voce:
“Sono uomini quelli, sono uomini veri e non anellidi, come se ne vedono tanti a Suzdal’!”
La biblioteca del Campo si è arricchita di nuove opere, giornali, libercoli tutti rientranti nel filone della letteratura marxista-leninista e social-popolare. L’Alba, scritta dai soliti fuoriusciti e dai nuovi convertiti, c’informa ogni giorno e di notte, sempre, su ciò che è logico e opportuno far sapere e conoscere a dei prigionieri in mano ai russi.
Il c.b., che è sì un testone ma ignorante no, apprende in giro che tra i libri a disposizione dei celoviek si trova anche un best seller di un noto scrittore proletario italiano, il signor Germanetto appunto, che ha per titolo Memorie di un barbiere67. Poiché qualcuno ha fatto capire al reazionario bersagliere fascista, e giustamente, che è cosa opportuna e lodevole ampliare e rinnovare la trita e vecchia cultura propinata da una scuola di élite e borghese, tradizionale ed imperialista pure, con la nuova cultura social-proletaria, progressista e di massa, il c.b. accetta il consiglio del compagno riverniciato bolognese e decide di chiedere in lettura proprio le memorie di quel tal barbiere, o figaro che dir si voglia. In paesi stranieri la solidarietà di razza e l’orgoglio nazionale sono molle che danno un grosso impulso all’agire e al fare, quindi meglio un barbiere connazionale che un professore straniero. Il buon proposito però, come spesso capita, non va in porto. Infatti il solito amico, aggiornato, competente su tutto e su tutti, col fervore che in ogni azione di convincimento dimostra ha la malaugurata idea di raccontare al neolettore anche la trama del racconto, il gergo toscaneggiante dello scritto e i molti inni “allo zio e alla donna” che l’autore delle memorie usa per descrivere i soprusi, le nefandezze, i dolori di un popolo dominato dal totalitarismo fascista. La trama sicuramente realistica fa piangere e a Suzdal’ si piange anche troppo; la narrativa chiama in causa fin dall’inizio, a proposito o a sproposito, noti e vecchi personaggi che figurano ogni anno in quei cosi borghesi che sono i calendari. Santi, angeli, arcangeli, proni non ricordo, madonne e poveri cristi sì: circa 365 personaggi (366 nell’anno bisestile), i quali in genere non hanno niente a che fare col racconto, ma ci stanno bene lo stesso, occupano un posto di rilievo tra i protagonisti senza parte. Non vi dico poi le porcate che si leggono sulle patriottiche pagine che illustrano ai posteri e al mondo le miserie e le nefandezze dell’Italia e degli Italiani durante lo storico periodo preso in esame dal compatriota scrittore. - Se devo aggiornarmi e leggere queste divine commedie posso farne anche a meno e restare ignorante come mi dicono che sono -, pensa tra sé il c.b., e il buon proposito cade nell’oblio dei pii desideri insoddisfatti. Che incallito reazionario quel bersagliere di Mussolini, diranno il giorno dopo la rinuncia intellettuali vari nostrani e il campione degli Asinelli.
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