17 - “Signori ufficiali…”
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Versione adatta alla stampa Un mattino di un solito giorno qualunque agli occhi attenti e vigili di alcuni celoviek di vedetta al chiusino apparve in lontananza una macchina strana, familiare, che si fermò davanti al Comando delle guardie russe. Anche da distante quell’automobile non assomigliava proprio ad uno di quei noti carcassoni neri che circolavano in Urss portando a spasso la onnipotente nomenklatura o i funzionari dell’Nkvd; né la sagoma pareva uno di quei macchinoni americani tipo transatlantici e tanto meno la linea severa di una BMW o Volkswagen tedesca. No, no, era sobria, filante, aerodinamica, non pacchiana, bellissima; insomma aveva il tocco elegante del design marca italiana.
“È una Lancia, Lancia vi dico”, gridò all’improvviso e con gli occhi fuori delle orbite un carrista celoviek; “È lei, son sicuro”.
“Ma piantala! Come può essere che una Lancia circoli a Vienna e di questi tempi! Non ci risulta che il nostro esercito abbia occupato l’Austria o si sia rifugiato in questi luoghi ameni”, risposero in coro i celoviek che a turno sbirciavano la scena.
“Beh! Non potrebbe essere preda bellica quella macchina, gente incredula e sprovveduta?”.
“No, no, poco probabile”.
“Comunque sia, quella è una Lancia e basta”, ribatté il carrista seccato.
Dalla macchina ormai battezzata nostrana scese un uomo senza alcuna divisa, un tipo nemmeno marziale, un borghese qualunque e con uno strano cappello in testa, anch’esso un po’ familiare. Quel cappello non è un colback da mugiko, né un copricapo tipo pensilina arcinoto in Russia, nemmeno una bombetta inglese, un képi o un basco. Mah! Che strano cappello, però!
“Popolo immemore, quello è un Borsalino”, gridò un celoviek dopo una furtiva sbirciata e una solenne capocciata sul chiusino di ferro; “lo vedo bene che è un Borsalino, ne avevo uno anch’io in Italia!”
L’omino in borghese, sceso dalla vettura, si avvicinò ad un gruppetto di guardie russe, che da poche divennero subito numerose; si tolse il cappello, parlò a lungo coi soldati, gesticolò anche, salutò nuovamente togliendosi il Borsalino, si avviò alla macchina e poi, con un dietro-front degno di un marziale caporale, ritornò dai russi e riprese a discutere, a sbracciarsi pure ma invano. Dopo alcuni minuti di animata e sterile conversazione nuovamente salutò, risalì in macchina e ripartì per chissà mai dove. Macchina e omino scomparvero al termine della strada e nei dintorni riprese la solita vita senza ulteriori novità di sorta. Gherardini è uscito dalla prigione ma vi è entrato Ebene perché è stato scoperto a parlare con dei civili fermi nei pressi del reticolato.
Quella visione da favola, anzi da fiaba, cioè omino Lancia e Borsalino, suscitò nei celoviek pensieri di gioia, di rinnovata speranza, anche timori nascosti e palesi; soprattutto alimentò ancor più in quel gruppetto di insofferenti la decisione presa: la fuga.
“Bisogna quanto prima possibile fuggire; non si può continuare a sperare e a poco a poco morire disperati”, fu il commento dei più.
“Ma la bella Lancia, il cappello Borsalino, il biglietto dato al piccolo angioletto biondo non vi dicono niente?”, eccepirono alcuni.
“Sì, buoni auspici, segni premonitori favorevoli, ma vani, almeno per ora”, risposero altri.
Il solito bastian contrario bofonchia:
“E l’inutile chiacchierata dell’uomo in borghese? E l’ostilità e l’indifferenza delle guardie russe? E la fanciulla ch’è svanita nel nulla? E la nostra immutata situazione, cosa dicono? Niente?”
Conversando tra loro in un luogo isolato, i duri insofferenti commentarono i fatti, esaminarono la situazione, poi convennero che aspettare equivaleva a morire, quindi era meglio fuggire; piano rischioso ma non impossibile; sabato notte, e come stabilito, via, verso sud-ovest. E alla fine tranquilli, e finalmente sereni, il c.b., Pontieri e l’alpino, assieme ad altri otto amici per la pelle, si abbandonarono al sonno senza pensare a cosa fare per il resto della prigionia.
E’ venuto a trovarci un generale russo, grassoccio come si conviene, addobbato con tanta chincaglieria sul petto tipo doni votivi e con un cappello a pensilina sul quale potrebbe posarsi uno sciame d’api o un nugolo di cavallette. Ci ha promesso, come al solito, che presto partiremo; cioè budiet. Cessa lo sciopero della fame, così è stato promesso al generalissimo. Meno male!
Due giorni dopo, di buon mattino, la macchina strana, la Lancia, riapparve e si fermò davanti al Comando delle guardie russe. Non era sola, però; l’accompagnavano altre più strane macchine, mezzi militari parevano, che sulla fiancata mostravano una grande stella bianca, come la cometa di Natale, ma senza la coda. Belle quelle grandi stelle, e di colore bianco, non rosso! Scesero dai mezzi una decina di uomini: quello solito col Borsalino, un altro in borghese e gli altri con divise militari di fogge diverse, mai viste prima. Alcuni portavano al braccio una larga fascia bianca, più grande però di quella che nel nostro paese cingeva il braccio dei fanciulli per la cerimonia della cresima; inoltre su quella candida striscia si vedevano disegnate due grandi lettere dell’alfabeto che, data la distanza, non si capiva bene se fossero una n, una m una p o una q.
Il gruppetto parlò a lungo coi soldati russi che ben presto divennero tanti; alcuni discutevano forte e anche animatamente; altri facevano segni con le mani; un paio mosse alcuni passi sulla strada verso il nostro edificio per poi tornare verso il gruppo e riprendere a discutere. Due tizi, forse i due ufficiali coi gradi militari più alti, i due comandanti degli opposti schieramenti, si salutarono sull’attenti con la mano al cappello, uno dei quali era tipo pensilina con stellone rosso e l’altro copricapo di chissà quale esercito; poi all’improvviso i due capi, uno dietro l’altro seguiti dal gruppo, con passo baldanzoso si diressero verso di noi.
Un militare con divisa cachi, inglese o americano forse, raggiunse per primo l’ingresso del reticolato e rivolto verso di noi urlò in un italiano stracciato, ma comprensibile:
“Italiani prigionieri, da questo momento siete liberi, tra poco vi accompagneremo alla stazione e partirete verso il vostro paese; noi resteremo qui ad attendervi, sbrigatevi”.
Dio santissimo, che colpo al cuore e al cervello! Roba da matti, momenti indescrivibili, sensazioni ed emozioni da restare secchi per arresto cardiaco o coma irreversibile! È vero, anche di gioia, di felicità, di contentezza si può morire! E in quel momento irreale gli occhi dei più duri che mai avevano pianto, e quelli degli altri che non avevano più lacrime, per un attimo si inumidirono guardando increduli il cielo.
“Lodiamo il Signore”, dissero i cappellani.
“Maledetti da Dio e dagli uomini”, urlarono i peccatori.
“Grazie, uomini stranieri ma amici”, gridarono tutti!
Tra il gruppetto dei soccorritori spiccano due esemplari del nostro Bel Paese: un rappresentante italiano a Vienna e il rappresentante consolare. Il Console, mai visto prima, più che darci il benvenuto, ci raccomanda di essere cauti, di fare attenzione alle nostre dichiarazioni una volta arrivati in Italia, perché il nostro Paese è molto cambiato, così come sono cambiati modi di pensare e di agire della popolazione. Beh? Il rappresentante, invece, con una diplomazia rozza e grossolana ci fa capire che in fin dei conti non è del tutto contrario a dare Trieste alla Iugoslavia. Il console riesce a porre fine a una reazione violenta dei celoviek a quella bestemmia udita già in Russia da Robotti e compagni. Forse quell’omino ancor oggi ringrazia il piccolo Padre per lo scampato pericolo corso.
Altra vivace discussione tra russi e gli altri e infine l’ufficiale che biascicava un po’ d’italiano aggiunse con un tono che non ammetteva replica:
“Signori ufficiali, dovrete attraversare qualche centinaio di chilometri in territorio occupato dai russi, ma state tranquilli; noi vi accompagneremo fino al confine e vi consegneremo alle autorità italiane e Alleate. Preparatevi a partire; signori, noi vi attenderemo”.
Signori noi? Ma quel Tizio dice proprio a noi? Noi signori? E chi se lo ricordava, gente! Prepararsi a partire? Ma noi non abbiamo nulla da preparare, non possediamo niente, quindi siamo già pronti, anzi prontissimi. In stazione nessuno si mosse dal gruppo per paura di essere di nuovo catturato dai russi. Tutti uniti, ben stretti e fermi, attaccati come la colla a quei tizi che ci chiamavano signori, attendiamo frastornati e inebetiti la partenza per Tarvisio.
“È una Lancia, Lancia vi dico”, gridò all’improvviso e con gli occhi fuori delle orbite un carrista celoviek; “È lei, son sicuro”.
“Ma piantala! Come può essere che una Lancia circoli a Vienna e di questi tempi! Non ci risulta che il nostro esercito abbia occupato l’Austria o si sia rifugiato in questi luoghi ameni”, risposero in coro i celoviek che a turno sbirciavano la scena.
“Beh! Non potrebbe essere preda bellica quella macchina, gente incredula e sprovveduta?”.
“No, no, poco probabile”.
“Comunque sia, quella è una Lancia e basta”, ribatté il carrista seccato.
Dalla macchina ormai battezzata nostrana scese un uomo senza alcuna divisa, un tipo nemmeno marziale, un borghese qualunque e con uno strano cappello in testa, anch’esso un po’ familiare. Quel cappello non è un colback da mugiko, né un copricapo tipo pensilina arcinoto in Russia, nemmeno una bombetta inglese, un képi o un basco. Mah! Che strano cappello, però!
“Popolo immemore, quello è un Borsalino”, gridò un celoviek dopo una furtiva sbirciata e una solenne capocciata sul chiusino di ferro; “lo vedo bene che è un Borsalino, ne avevo uno anch’io in Italia!”
L’omino in borghese, sceso dalla vettura, si avvicinò ad un gruppetto di guardie russe, che da poche divennero subito numerose; si tolse il cappello, parlò a lungo coi soldati, gesticolò anche, salutò nuovamente togliendosi il Borsalino, si avviò alla macchina e poi, con un dietro-front degno di un marziale caporale, ritornò dai russi e riprese a discutere, a sbracciarsi pure ma invano. Dopo alcuni minuti di animata e sterile conversazione nuovamente salutò, risalì in macchina e ripartì per chissà mai dove. Macchina e omino scomparvero al termine della strada e nei dintorni riprese la solita vita senza ulteriori novità di sorta. Gherardini è uscito dalla prigione ma vi è entrato Ebene perché è stato scoperto a parlare con dei civili fermi nei pressi del reticolato.
Quella visione da favola, anzi da fiaba, cioè omino Lancia e Borsalino, suscitò nei celoviek pensieri di gioia, di rinnovata speranza, anche timori nascosti e palesi; soprattutto alimentò ancor più in quel gruppetto di insofferenti la decisione presa: la fuga.
“Bisogna quanto prima possibile fuggire; non si può continuare a sperare e a poco a poco morire disperati”, fu il commento dei più.
“Ma la bella Lancia, il cappello Borsalino, il biglietto dato al piccolo angioletto biondo non vi dicono niente?”, eccepirono alcuni.
“Sì, buoni auspici, segni premonitori favorevoli, ma vani, almeno per ora”, risposero altri.
Il solito bastian contrario bofonchia:
“E l’inutile chiacchierata dell’uomo in borghese? E l’ostilità e l’indifferenza delle guardie russe? E la fanciulla ch’è svanita nel nulla? E la nostra immutata situazione, cosa dicono? Niente?”
Conversando tra loro in un luogo isolato, i duri insofferenti commentarono i fatti, esaminarono la situazione, poi convennero che aspettare equivaleva a morire, quindi era meglio fuggire; piano rischioso ma non impossibile; sabato notte, e come stabilito, via, verso sud-ovest. E alla fine tranquilli, e finalmente sereni, il c.b., Pontieri e l’alpino, assieme ad altri otto amici per la pelle, si abbandonarono al sonno senza pensare a cosa fare per il resto della prigionia.
E’ venuto a trovarci un generale russo, grassoccio come si conviene, addobbato con tanta chincaglieria sul petto tipo doni votivi e con un cappello a pensilina sul quale potrebbe posarsi uno sciame d’api o un nugolo di cavallette. Ci ha promesso, come al solito, che presto partiremo; cioè budiet. Cessa lo sciopero della fame, così è stato promesso al generalissimo. Meno male!
Due giorni dopo, di buon mattino, la macchina strana, la Lancia, riapparve e si fermò davanti al Comando delle guardie russe. Non era sola, però; l’accompagnavano altre più strane macchine, mezzi militari parevano, che sulla fiancata mostravano una grande stella bianca, come la cometa di Natale, ma senza la coda. Belle quelle grandi stelle, e di colore bianco, non rosso! Scesero dai mezzi una decina di uomini: quello solito col Borsalino, un altro in borghese e gli altri con divise militari di fogge diverse, mai viste prima. Alcuni portavano al braccio una larga fascia bianca, più grande però di quella che nel nostro paese cingeva il braccio dei fanciulli per la cerimonia della cresima; inoltre su quella candida striscia si vedevano disegnate due grandi lettere dell’alfabeto che, data la distanza, non si capiva bene se fossero una n, una m una p o una q.
Il gruppetto parlò a lungo coi soldati russi che ben presto divennero tanti; alcuni discutevano forte e anche animatamente; altri facevano segni con le mani; un paio mosse alcuni passi sulla strada verso il nostro edificio per poi tornare verso il gruppo e riprendere a discutere. Due tizi, forse i due ufficiali coi gradi militari più alti, i due comandanti degli opposti schieramenti, si salutarono sull’attenti con la mano al cappello, uno dei quali era tipo pensilina con stellone rosso e l’altro copricapo di chissà quale esercito; poi all’improvviso i due capi, uno dietro l’altro seguiti dal gruppo, con passo baldanzoso si diressero verso di noi.
Un militare con divisa cachi, inglese o americano forse, raggiunse per primo l’ingresso del reticolato e rivolto verso di noi urlò in un italiano stracciato, ma comprensibile:
“Italiani prigionieri, da questo momento siete liberi, tra poco vi accompagneremo alla stazione e partirete verso il vostro paese; noi resteremo qui ad attendervi, sbrigatevi”.
Dio santissimo, che colpo al cuore e al cervello! Roba da matti, momenti indescrivibili, sensazioni ed emozioni da restare secchi per arresto cardiaco o coma irreversibile! È vero, anche di gioia, di felicità, di contentezza si può morire! E in quel momento irreale gli occhi dei più duri che mai avevano pianto, e quelli degli altri che non avevano più lacrime, per un attimo si inumidirono guardando increduli il cielo.
“Lodiamo il Signore”, dissero i cappellani.
“Maledetti da Dio e dagli uomini”, urlarono i peccatori.
“Grazie, uomini stranieri ma amici”, gridarono tutti!
Tra il gruppetto dei soccorritori spiccano due esemplari del nostro Bel Paese: un rappresentante italiano a Vienna e il rappresentante consolare. Il Console, mai visto prima, più che darci il benvenuto, ci raccomanda di essere cauti, di fare attenzione alle nostre dichiarazioni una volta arrivati in Italia, perché il nostro Paese è molto cambiato, così come sono cambiati modi di pensare e di agire della popolazione. Beh? Il rappresentante, invece, con una diplomazia rozza e grossolana ci fa capire che in fin dei conti non è del tutto contrario a dare Trieste alla Iugoslavia. Il console riesce a porre fine a una reazione violenta dei celoviek a quella bestemmia udita già in Russia da Robotti e compagni. Forse quell’omino ancor oggi ringrazia il piccolo Padre per lo scampato pericolo corso.
Altra vivace discussione tra russi e gli altri e infine l’ufficiale che biascicava un po’ d’italiano aggiunse con un tono che non ammetteva replica:
“Signori ufficiali, dovrete attraversare qualche centinaio di chilometri in territorio occupato dai russi, ma state tranquilli; noi vi accompagneremo fino al confine e vi consegneremo alle autorità italiane e Alleate. Preparatevi a partire; signori, noi vi attenderemo”.
Signori noi? Ma quel Tizio dice proprio a noi? Noi signori? E chi se lo ricordava, gente! Prepararsi a partire? Ma noi non abbiamo nulla da preparare, non possediamo niente, quindi siamo già pronti, anzi prontissimi. In stazione nessuno si mosse dal gruppo per paura di essere di nuovo catturato dai russi. Tutti uniti, ben stretti e fermi, attaccati come la colla a quei tizi che ci chiamavano signori, attendiamo frastornati e inebetiti la partenza per Tarvisio.
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